OGNI STARTUP INNOVATIVA OCCUPA SOLO TRE PERSONE

Martedì 17 gennaio 2017 – E’ uscito su IlSole24Ore un report dedicato al livello di occupazione delle startup in Italia commentato dal nostro CEO, Francesco Inguscio.

Un’intervista, quella fatta a Francesco, che tocca anche alcuni aspetti non riportati poi nell’articolo a firma di Alberto Magnani. Quando si parla di occupazione generata dalle startup si possono considerare, fra gli altri, molteplici fattori: professionalità, indotto, effetto moltiplicatore di incubatori e acceleratori, rapporto numerico tra soci e dipendenti. Se da un lato il Comune di Milano sostiene che le 570 startup nate grazie ai propri finanziamenti creino più di 5.500 posizioni di lavoro, dall’altro i numeri nazionali sono impietosi, contando una forza lavoro totale di circa 10mila occupati. Numeri marginali rispetto ad hub come Londra, Berlino o, in proporzione, anche solo Lisbona. 

Le startup italiane creano davvero lavoro o, per ora, sono solo l’indotto di incubatori e acceleratori? Se sì, c’è il rischio che si tratti sempre di posizioni di lavoro instabili e senza prospettive di medio termine?

Sfatiamo intanto il falso mito che per creane nuove imprese serva necessariamente passare da un incubatore o acceleratore

A chi avvia una nuova impresa servono clienti e non incubatori.

Si fa impresa da sempre, anche quando non si chiamavano “startup” e non andava di moda come adesso. E ora come allora non serve passare da un incubatore per presentarsi sul mercato. Anzi, esattamente come in pediatria finiscono in una incubatrice i neonati che ancora sono prematuri per sopravvivere nel mondo, così negli incubatori finiscono spesso neoimprenditori che non troppo acerbi per confrontarsi con il mercato. Ma esattamente come la maggioranza dei bambini non nasce prematura e non ha bisogno di incubatrici, così la maggioranza degli imprenditori e delle loro neo-imprese non ha bisogno di un incubatore per fare business sul mercato

A prescindere che la startup passi o meno da un periodo di incubazione o accelerazione tuttavia bisogna tenere conto che non tutte le startup sono uguali.

Uno dei più grandi esperti del settore, Steve Blank, ne individua addirittura sei tipi (http://blogs.wsj.com/accelerators/2013/06/24/steve-blank-the-6-types-of-startups-2/), io mi limito ad enfatizzarne tre: la startup “lifestyle” che altro non è che la ditta individuale o la partita iva che porta avanti una attività basata (nel migliore dei casi) sulle proprie passioni (es: il consulente, lo sviluppatore, il freelance e i tanti “CEO c/o me stesso” che popolano il web), la piccola impresa non scalabile come sono buona parte delle attività d’impresa italiane (es: la pizzeria, la piccola impresa artigiana), la startup con buon potenziale da valorizzare perché un giorno si trasformi da “startup” e “scaleup”.  

Per quanto sia difficile poter definire con certezza dai primi anni di attività cosa una startup è destinata a diventare “da grande”, basandomi sulle c.a. 1.500 candidature annue degli (aspiranti) imprenditori che partecipano alle iniziative del nostro venture accelerator (Nuvolab), la stragrande maggioranza dei progetti che vediamo sono “lifestyle”, ossia una forma mascherata di auto-impiego

Pochi sono quelli destinati a diventare una piccola azienda non scalabile (e destinata a creare qualche decina di posti di lavoro nel migliore dei casi). 

Rarissime le startup con buon potenziale per cui il mio consiglio è “startup in Italy, scaleup abroad” per poter esprimere al meglio il loro valore, come peraltro accade a molte delle startup scalabili che raccolgono un round seed in Italia e poi si spostano all’estero sia per aggredire nuovi mercati, essendo quello domestico molto limitato per buona parte dei settori, sia per raccogliere maggiori finanziamenti, visto che in Italia oltre al round seed non si trovano molti altri fondi. Quindi i posti di lavoro creati sono da ripartire tra l’Italia e le altre nazioni dove la startup è presente. La linea prevalente è quella di creare una “dual company”, con R&D in Italia e sede primaria all’estero.

Al netto di questi modelli teorici i numeri del registro delle imprese a fine settembre 2016 ci dicono che le 6.363 startup innovative complessivamente hanno 25.622 soci e 9.042 dipendenti: c.a. 3 soci (più o meno lavoratori) per ogni dipendente. Se usciamo dalle medie vediamo che solo 2.593 a giugno 2016 (il 40%) avevano almeno un dipendente. Nel 60% delle startup quindi ci lavorano solo i soci (auto-impiego). Le startup che invece hanno dipendenti in media danno lavoro a 3,49 persone, anche se oltre la metà ne occupa 2 o meno.  

Se sommiamo tutti questi numeri (a giugno 2016) vediamo che complessivamente nelle startup innovative erano coinvolte a vario titolo 32.087 persone.

Ma al netto dei soggetti a vario titolo impiegati a mio avviso urge guardare in faccia la realtà (e i fatturati) per capire se e come potrebbero mai sostenersi queste persone se mai pensassero di trarre il proprio sostentamento dal lavoro nella propria startup. Ossia oltre a quanto lavoro bisogna domandarsi quale tipo di lavoro possono offrire.

In tal senso i fatturati 2015 delle startup parlano da soli: anche se il fatturato medio è di circa € 152.000, il fatturato mediano è di € 30.000. Ossia metà delle startup italiane fattura meno di € 30.000 che da soli, tolte le spese per mantenere operativa una startup, non bastano per pensare nemmeno di pagare un affitto e uno stagista. Quindi al netto della quantità di lavoro creata credo si debba molto riflettere sulla qualità dei posti di lavoro che la maggioranza delle startup possono offrire. Siamo più nel mondo della gig economy (economia dei lavoretti) che nel mondo della real economy, almeno per ora.

Ulteriore riflessione secondo me è da fare tenendo conto che le STI sono solo lo 0,4% delle società di capitali attive in Italia. E forse pensare che debbano essere le startup a rimediare ai problemi di disoccupazione sistematica dell’Italia è un’arma di distrazione di massa. Anche tenendo conto che mentre il valore medio di posti di lavoro per startup è di  3,5 posti di lavoro / startup  (mediano 2) le PMI in media occupano 14,3 dipendenti / PMI (mediano 4).

Esattamente come non si può chiedere che siano i neo-laureati a pagare le pensioni di tutti gli italiani, così non si può chiedere che siano le neo-aziende a creare tutti i lavori che mancano in Italia. 

Meglio quindi concentrarsi su chi sul mercato c’è da anni, sia per creare posti di lavoro che per pagare le pensioni.. i neo-laureati e le neo-aziende faranno la loro parte quando saranno cresciute a sufficienza per avere un peso nell’economia italiana. 

Perché il cosiddetto ecosistema italiano delle startup non riesce a crescere e a consolidarsi anche dal punto di vista delle posizioni lavorative?

Come tutti dicono da sempre servono maggiori finanziamenti da parte di investitori istituzionali e banche ma il 2016 si è chiuso con timidi segnali di ripresa (178 i milioni di euro investiti nel 2016 in startup, oltre 500 milioni di euro erogati dalle banche alle startup innovative da quando è stato concesso alle startup innovative di essere supportate dal Fondo di Garanzia); ma quello che manca di più è il migliore VC che una startup possa volere. E il miglior VC, per qualsiasi startup, è il mercato. Quindi clienti che chiedano i servizi e i prodotti delle startup. E poi li paghino puntuali. E senza la crescita dei flussi di cassa “endogeni” dati dal mercato oltre che quelli “esogeni” dati dagli investitori, è difficile poter garantire stipendi e stabilità lavorativa a chi lavora in una startup e non ha i polmoni (finanziari) per lavorare in “apnea” per lungo tempo. Per questo che poi per poter tornare a “respirare” le migliori startup che non vogliono restare attaccate al respiratore dei finanziamenti pubblici o delle poche commesse interne, devono pensare seriamente all’interazionale, se il mercato interno resta asfittico.

Il nodo dei finanziamenti. La scarsa crescita del sistema è “solo” colpa della carenza di finanziamenti o anche di limiti culturali e organizzativi delle neoimprese italiane?

I limiti sono sicuramente anche di altro tipo.

Culturali: sicuramente la moda startup deve cessare al più presto e bisogna tornare a fare startup per scelta e non per mancanza di scelte. E anche i media devono aiutarci in questo.

Fare azienda non deve essere una forma di autoimpiego ma di creazione di impiego. E per farlo bisogna avere le giuste attitudini e motivazioni. 

E non bisogna nemmeno farlo per moda o status (i c.d. “Startrucks Entrepreneur”) ma perché lo si sente come una missione personale.

Fare l’imprenditore ha un valore sociale enorme ed è giusto comprenderlo e.. capire che l’imprenditoria non è una cosa democratica. Bisogna avere la stoffa e non ci si può improvvisare.

Quindi “fare startup” non può essere la nuova “arte di arrangiarsi”.

Legislativi: bisogna eliminare il “tetto di vetro” che c’è in Italia (a livello di vincoli sindacali e fiscali) che c’è per tutte le aziende che, appena iniziano a crescere, iniziano a vedere arrivare obblighi di ogni tipo. E’ il maggior lavoro che crea maggiori diritti. Non sono i maggiori diritti che da soli creano maggior lavoro, se non sono accompagnati da maggiore professionalità e un contesto che promuova l’imprenditoria come portatrice di benessere a valore sociale.

Educativi: perché le startup creano lavori spesso ad alto contenuto tecnologico. E se il lavoro è un diritto, la professionalità è un dovere. E purtroppo fin troppo spesso i ragazzi che escono dai percorsi formativi sono totalmente inadatti ad entrare in un modo che viaggia ad una velocità nettamente superiore a quella a cui viaggiano le nostre università. E se non si riesce a professionalizzare i nostri ragazzi prima che entrino nel mercato del lavoro, forse meglio iniziare a pensare come farlo durante le loro esperienze lavorative. Altrimenti le competenze, così come i capitali, bisognerà andare a trovarli altrove.