I FATTORI DA CONSIDERARE PER PORTARE LA PROPRIA STARTUP IN INDIA: IL CASO NOONIC

Una startup italiana che decide di internazionalizzare il proprio centro di sviluppo in India deve essere pronta ad affrontare numerose sfide, superare barriere culturali e approcciarsi ad un ecosistema che, anche solo dal punto di vista del numero di persone, è sensibilmente diverso da quello italiano.

È il caso di Noonic, una società di Padova che tra il 2013 e il 2015 ha intrapreso la strada dell’offshoring in India della propria area IT e che fa parte della nostra Tribù.

Oggi i founder Nunzio, Nicola e Sebastiano hanno fatto rientrare queste attività in Italia dando lavoro a ben 16 persone e posizionandosi come una delle tech company più interessanti del nord Italia. Noonic è specializzata nell’ambito dell’automation per il marketing ed e-commerce, e lo sviluppo di prodotti software innovativi.

Noi abbiamo incontrato Nunzio Martinello per farci raccontare un po’ meglio i motivi che hanno spinto Noonic prima a spostarsi in India e poi a rientrare a Padova.

Ciao Nunzio, l’esperienza all’estero di Noonic è stata ripresa da molti media nazionali. Noi di Nuvolab volevamo avere qualche insight più approfondito sul tema dell’offshoring: perché avete scelto proprio l’India?

Perché l’Asia rappresenta una grande sfida e una grande opportunità per ogni Tech Company.  L’India, in particolare, è da anni il principale centro di outsourcing IT al mondo, con il 67% di share nel 2015.  Al momento ci sono circa 2,75 milioni di sviluppatori e si stima diventeranno 5,2 milioni entro il 2018. Il nostro obiettivo fin dall’inizio era quello di creare un team strutturato di programmatori dall’esperienza internazionale in grado di supportarci nello sviluppo dei nostri più evoluti prodotti tecnologici.  Abbiamo dato a Noonic, da subito, un vantaggio competitivo e un approccio scalabile.

Abbiamo iniziato nel Technopark a Trivandrum con 5 programmatori per arrivare a 14 nel giro di appena 12 mesi.

Oltre all’interesse per le risorse umane qualificate, siamo sempre stati attratti dal mercatoindiano, fatto di 1,3 miliardi di persone, in crescita e con grossi investimenti nel settore di nostro interesse. Al di là dell’aspetto produttivo infatti, era già chiara 5 anni fa l’importanza del mercato asiatico e indiano in particolare. Sapevamo sarebbe stata un’impresa complessa ma siamo sempre stati convinti dell’importanza strategica della presenza (e conoscenza) di quella parte del mondo. Ci sono sempre piaciute le sfide difficili.

L’India è un Paese molto diverso dall’Italia sotto numerosi aspetti. Infatti, tante sono le criticità e le complessità da affrontare quando si vuole spostare all’estero parte dell’attività produttiva. Primi fra tutti i fattori culturali e sociali: quanto possono incidere?

L’India è un paese completamente diverso rispetto all’Italia. È stato necessario imparare nuove dinamiche presenti nel business ed in particolare nel settore IT.

Sicuramente il primo scoglio è stato quello culturale e sociale. Sebbene da molti punti di vista Italia e India condividano diversi valori e dinamiche, si tratta di un mondo completamente diverso. Anche da un punto di vista sociale è stato complesso, soprattutto quando ci siamo trasferiti lì la prima volta. Sicuramente comprendere le dinamiche sociali e di comportamento è indispensabile per poter lavorare in qualsiasi paese straniero. Trasformare la differenza in un vantaggio competitivo è uno dei nostri punti di forza.

Quanto è complesso affrontare la gestione delle HR in India, potremmo addirittura sfatare qualche mito?

Da un punto di vista esclusivamente di business, la difficoltà principale è stata la gestione delle risorse umane ed in particolare il recruitment. Anzitutto c’è da dire che in India sono presenti con grandi centri di sviluppo le più grosse aziende del mondo, indiane e non (Google, IBM, Oracle, Tata, Infosys, etc.) che risultano ovviamente come dei competitor nell’assunzione di risorse. In particolare in India viene generalmente data molta importanza al ‘brand’, anche per motivi di ‘pressione sociale’, a partire dalla propria famiglia. La concorrenza è alta.

Altra attività estremamente complessa è stata individuare fra i milioni di programmatori indiani quelli giusti per il nostro progetto aziendale. Su questo punto mi dilungo un attimo perché mi è capitato troppo spesso di sentire opinioni e luoghi comuni lontani dalla realtà.

In Italia il numero di persone che sceglie di studiare informatica è relativamente basso rispetto agli altri percorsi di studio e generalmente questa facoltà viene scelta da chi è davvero interessato/appassionato al settore. Il mercato del lavoro italiano richiede disperatamente risorse qualificate nel campo dell’informatica, rendendo tali percorsi di studio tra i migliori in termini di probabilità di occupazione, ma questo non sembra essere ancora chiaro ai ragazzi che devono scegliere il proprio futuro. La laurea in informatica, inoltre, è particolarmente complessa ed il percorso di studi è pensato per formare persone in grado di comprendere architetture, sistemi e tecnologie, non dei semplici esecutori che si limitano a scrivere codice che funziona. Banalizzando, in Italia tendiamo a formare architetti e non carpentieri.

In India, invece, un’enorme quantità di persone va a studiare IT anche perché si sa che il settore è in crescita e con ottime opportunità di carriera.

Alcuni istituti sfornano ogni anno fra i migliori talenti al mondo (Indian Institute of Technology, per esempio), ovviamente in numero maggiore rispetto ad un paese come l’Italia (anche solo per una questione di grandi numeri, 60 milioni contro 1,3 miliardi). La maggior parte delle risorse, invece, sono meno qualificate ma assolutamente richieste dal settore, e mi riferisco a quella porzione di lavoratori specializzati che qui in Italia tende a mancare. Purtroppo la differenza di competenze non è particolarmente palese a livello di curriculum, quindi l’effort nell’identificazione dei programmatori di altissima qualità (rispetto al modello a cui siamo abituati) fra le migliaia di risorse nel mercato è particolarmente alto.

Non è vero quindi che i programmatori indiani non siano affidabili o di livello più basso, si tratta semplicemente di risorse diverse rispetto a quelle che siamo abituati ad avere in Italia. Non nascondo, infatti, che in India ho incontrato alcuni fra i programmatori migliori che io conosca (e che di solito finiscono con l’avere un biglietto di sola andata per la Silicon Valley 12 mesi prima di laurearsi).

Un altro aspetto legato alle risorse umane che va considerato è quello del turnover delle risorse, problematica non molto presente in Italia ma diffusa in molti paesi del mondo dove il mercato del lavoro è particolarmente dinamico. Non è raro, infatti, che il tasso di rotazione sia >50% all’anno, dovuto ad una grossa domanda da parte delle aziende e alla presenza di moltissime realtà straniere che offrono stipendi sempre più alti.

Da questo punto di vista in Italia siamo particolari: è sicuramente più radicata la tendenza ad ‘affezionarsi’ alla propria azienda ed ai propri colleghi, ragion per cui attività come il team building non sono così diffuse qui rispetto a paesi quali UK, USA, India, etc.

Ovviamente le informazioni che ho riportato riguardano la situazione in generale. Nel nostro percorso in India abbiamo avuto l’opportunità di collaborare con persone davvero in gamba e che sono rimaste con noi per anni, il nostro tasso di abbandono era inferiore rispetto alla media e il turnover delle risorse, se gestito adeguatamente, ha anche degli aspetti positivi, come per esempio una continua contaminazione da parte di nuove risorse, junior e senior.

Quali altre questioni avete dovuto affrontare? La burocrazia, ad esempio?

Ovviamente per molte piccole cose è stato necessario adattarci alle diverse modalità di funzionamento tipiche dell’India, per esempio burocrazia, puntualità e tempistiche. Piccole cose che, se non si conoscono, possono rallentare molto il lavoro, ma che se preventivate sono tranquillamente gestibili. Inoltre abbiamo dovuto fin da subito implementare strumenti e metodologie di lavoro compatibili con l’assetto dell’azienda: due sedi a 7000 km di distanza, fuso orario, lingue differenti, etc., tutto però facilitato dal fatto che il nostro lavoro si presta particolarmente bene alla delocalizzazione.

Ma allora… perché siete voluti tornare in Italia?

Più che di ritorno sarebbe corretto parlare di nuovi investimenti. Dopo quattro anni in cui le cose sono andate molto bene e siamo cresciuti molto, è giunto il momento di investire nel nostro Paese. Al momento ci siamo verticalizzati su servizi molto tecnici e specifici e su progetti/prodotti complessi e abbiamo deciso di potenziare la struttura qui, sia per un maggior controllo sia perché il nostro business in Europa è cresciuto molto nell’ultimo periodo.

Ora nella nostra sede di Padova lavorano 16 persone e proseguiremo con ulteriori assunzioni durante i prossimi 12 mesi, contiamo di diventare 25.

L’India resta determinante per molti processi di sviluppo di respiro internazionale. È stata una palestra preziosa: ora siamo in grado di espanderci anche in altri mercati. Siamo sicuri che questo ponte tra Italia e India, che abbiamo gettato e stiamo continuando a costruire, porterà grandi frutti, soprattutto per quanto riguarda il settore innovazione/startup.

Quindi avete deciso di non fare più offshoring?

Al contrario. Siamo convinti che sia una scelta assolutamente corretta, se non necessaria, quella di utilizzare risorse delocalizzate in grado di fornire servizi/prodotti di alta qualità. In Italia abbiamo un indubbio vantaggio competitivo per quanto riguarda il design (inteso come progettazione), il gusto estetico, il problem solving, etc. Applicare tutto questo al nostro settore, oltre che al food, al fashion e al mondo delle fornitures dovrebbe essere l’obiettivo delle aziende italiane. Siamo in grado di fare lavori di altissima complessità e qualità; ha senso quindi focalizzarsi su questi e acquistare esternamente beni e servizi che non richiedono un know-how di alto livello e che quindi vengono offerti ad un costo più basso.

Non ha senso fare concorrenza a Paesi come India e Cina fornendo la medesima qualità di prodotto/servizio. Abbiamo la fortuna di trovarci in un paese riconosciuto a livello mondiale per le sue eccellenze, non sfruttare questa opportunità è un peccato.

Come vi è sembrato l’ecosistema startup in India?

Bangalore è da sempre uno degli hub IT più importanti al mondo, per via della concentrazione di grandi aziende e multinazionali, di software developer e infrastrutture. In questi ultimi anni c’è stata una grossa crescita dell’ecosistema startup, al punto che è considerata da molti la seconda Silicon Valley e sicuramente uno dei luoghi più interessanti per quanto riguarda il panorama innovazione. Cosa lo rende così interessante?

Anzitutto la presenza di infrastrutture adeguate (connettività, spazi di coworking e uffici, etc.) che sicuramente non mancano a Bangalore.

I costi di ‘startup’ sono ovviamente inferiori rispetto a Europa/USA e sono presenti numerose SEZ (Special Economic Zone), ovvero location dove si arriva fino al 100% di detassazione e supportate da numerosi incentivi soprattutto nell’import/export di prodotti e servizi.

Il mercato è uno dei più grossi al mondo e sicuramente fra i primi in termini di crescita. La classe media si sta allargando e sta aumentando il potere di acquisto. La tecnologia si sta diffondendo sempre più velocemente grazie anche alle iniziative del Governo (es: Digital India) e ormai anche gli autisti dei risciò sono connessi da smartphone. Tutto questo porta ovviamente ad una crescita della domanda per quanto riguarda servizi e prodotti, in un mercato che è già enorme di suo.

L’ecommerce è in pieno boom ed il settore startup sta ottenendo grossissimi investimenti, sia internamente che dal resto dell’Asia e degli Emirati Arabi.

L’ecosistema startup è uno dei più dinamici e frizzanti in cui mi sia trovato: centinaia gli eventi e le opportunità di networking, apertura anche da parte dei grossi player al dialogo, la presenza dei maggiori venture capitalist e dei programmi di incubazione/accelerazione delle grosse aziende statunitensi (Google,  IBM, etc..) e tutta una serie di servizi a supporto dei nuovi business sono gli elementi che mi hanno fatto amare questo Paese e che mi hanno fatto capire di cosa avrebbe bisogno il nostro.

Ad esempio, se si vuole testare e validare un business che preveda la consegna di beni in giornata, non è necessario assumere dei fattorini ma ci si può avvalere del servizio di diverse aziende che fanno solo quello, ad un prezzo assolutamente accessibile. Anche il mondo del lavoro che permette assunzioni in tempi brevi ed i costi contenuti per quanto riguarda dipendenti/ufficio sono sicuramente un aspetto importante, soprattutto se paragonati ai costi di San Francisco o Londra. E si sa, molte startup chiudono perché finiscono i soldi. Con la stessa quantità di denaro, ipotizzando una startup digital con target globale, in India si riesce sicuramente a sviluppare molto di più rispetto ai classici hub europei o americani.

La cosa che più mi ha colpito comunque sono state le persone. Intorno al settore startup, ancora poco quotato qui da noi, c’è molto interesse da parte di numerosi player, compresi gli studenti. Sono stato al Christ College a Bangalore a parlare di startup e innovazione e l’interesse dimostrato dagli studenti (non IT!) era davvero alto, molti già collaboravano la sera (quasi sempre gratuitamente) con alcune startup e nelle settimane successive alcuni di loro sono venuti nel nostro ufficio per presentare la loro startup e avere qualche suggerimento su come svilupparla. Nel settore si dice spesso ‘hire attitude, not skills’, e lì ho trovato l’attitude giusta in molte persone.

Per noi di Nuvolab è un onore avere all’interno della Tribù una società che ha avuto il coraggio di vedere oltre i confini nazionali e di buttarsi pur cosciente dei rischi a cui andava incontro.

Questo per noi significa Rainmaking: per “far accadere le cose” bisogna prima “fare”.